Lo svelamento del simbolo e la danza del rito

«Si direbbe che l’uomo, il quale cerca invano la sua esistenza e da ciò trae una filosofia, ritrovi solo nell’esperienza della realtà simbolica la via del ritorno a quel mondo in cui egli non si sente straniero» (Jung, 1980, p.70).

Parlare di aspetti che riguardanol’uomo mettendosi nella prospettiva “umana troppo umana” di essere uomini risulta essere un’esperienza affascinante ed inquietante nello stesso tempo. La navicella dell’umano ingegno di fronte ad antichi baratri mai ancora completamente esplorati neppure dalla più moderna e sofisticata tecnologia prova un brivido di terrore o per meglio dire un brivido di sacro terrore. «Dunque, per primo fu Caos» così Esiodo (1994, p.71) inizia la narrazione sull’origine del mondo; Caos è una presenza costante in tutti i racconti che riguardano la cosmogonia dell’universo, siano essi tratti da un testo sacro o da una trattazione scientifica. Di conseguenza il Caos, il Principium primo accomuna gli uomini a qualsiasi latitudine essi vivano. I nomi che vengono attribuiti a questa situazione pre-temporale e pre-spaziale sono ovviamente diverse a seconda della cultura con la quale ci troviamo a dialogare. Ma nonostante questo impasse linguistico è importante rilevare le caratteristiche costanti che riguardano una tale situazione. Dunque prima che il principio vitale trovasse posto sulla Terra, una realtà polimorfa, contraddistinta dal disordine e connotata generalmente dal colore nero imperversava ovunque. Era il nulla eterno, senza dei, senza natura, senza uomo, senza vita. A questo punto, la luce, l’Aurora dei tempi diviene necessaria per colmare questo senso di disperato vuoto e di desolazione profonda. E così “luce fu”4 o fu il “big bang”, ovvero quello scoppio primordiale, luminoso e infuocato da cui si generò l’universo e la vita. Che cosa, si chiede Neumann, può infatti aver spinto l’uomo “primitivo”, a ricercare il senso del “sacro”? Spesso è stato descritto attraverso quali vie avventurose, pericolose, e a volte lunghissime, si debbano raggiungere quelle caverne poste nel profondo dei monti, che servivano da luoghi di culto all’uomo del periodo glaciale, e in cui egli dipingeva le sue magiche pitture animalistiche. Il luogo sacro veniva raggiunto strisciando e arrampicandosi, nuotando per laghi sotterranei, percorrendo strettissime piste costeggianti abissi, ascendendo camini rocciosi verticali e sorpassando tetti di roccia quasi impraticabili; e tutto ciò nella più profonda oscurità rotta solo dall’incerta fiamma di piccole lampade a muschio, in mezzo a pericoli continuamente impedenti lungo la via. (Neumann, 1976, p. 95-133) Cosa può avere indotto l’uomo dei primi tempi a esporsi volontariamente a tali immensi pericoli per frequentare, per l’appunto, un luogo di culto del genere? Si tratta dell’archetipo della via misteriosa, al cui termine si trova un evento di trasmutazione che si svolge in un luogo sacro, nello spazio centrale, l’utero della Grande Madre; ma quel luogo di trasmutazione può essere raggiunto solo percorrendo una via iniziatica conducente in un labirinto così pericoloso da minacciare la morte e in cui non è possibile alcun orientamento cosciente (Neumann, op.cit.). Della situazione dell’uomo dei primi tempi nelle viscere dei monti, si può dire altrettanto bene che sia essa a provocare l’archetipo quanto che sia quest’ultimo a provocarla. Tale scontro di situazione ambientale umana e di archetipo, però, rende l’archetipo suscettibile – e questo è decisivo – di coscienza, perché, tramite la straordinaria tensione dell’intera personalità e del gruppo, al punto di rottura la proiezione archetipica irrompe nella coscienza umana in qualità di immagine, e, in uno stesso medesimo accadimento l’archetipo si manifesta nella psiche umana mentre il luogo si manifesta quale “luogo sacro”. L’evento fondativo del rito consiste, dunque, in ciò: che il gruppo o il singolo, seguendo la tendenza dell’archetipo, operante inconsciamente, subisce un processo in cui l’archetipo irrompente diviene esperienza conscia. E la coscienza insorge in quanto, dalla tensione inconscia della situazione archetipicamente diretta, riluce, solo ora come coscienza, il lampo dell’illuminazione e della rivelazione; oppure, in quanto in una coscienza già presente viene ora a comparire una nuova porzione di coscienza nella forma dell’immagine e del simbolo archetipici (Neumann, op.cit.). In questi passi tratti da una delle opere più interessanti scritte da Neumann, troviamo una dissertazione che si fonda sull’utilizzo di alcuni vocaboli che nel corso dei secoli e a seconda delle diverse teorie filosofiche e scientifiche hanno trovato definizioni plurime. Filosofi, semiologi e linguisti si sono adoperati per cercare la definizione di simbolo e di “mondo simbolico”. Tralasciando qui la lunga querelle semiologica-linguistica, mi vorrei soffermare solamente sullo studio svolto da Marthe Chollot-Varagnac che nella sua opera Les origines du graphisme symbolique. Essay d’analyse de écritures primitives en Préistorie (Editions de la Fondation Singer-Polignac), offre un’importante riflessione sulle forme rinvenute nelle celebri grotte di Altamira, Lascaux, Chauvet e Cosquier, motivi geometrici che, secondo il parere dell’autrice “[…] sono stati disegnati senza utilizzare comparazioni naturalistiche”. L’autrice ne ha identificato ventiquattro tipi che nel corso di tremila anni si sono sempre più “schematizzati” partendo da forme naturalistiche fino ad arrivare all’ideogramma. In questo percorso dell’uomo Marthe Challot-Varagnac evidenzia «[…] un bisogno crescente di comunicare fra gli uomini». A questo proposito è interessante ricordare le ricerche svolte dagli studiosi della preistoria che, utilizzando le più moderne tecnologie, hanno analizzato le pareti dei frammenti cranici fossili rapportandole alle acquisizioni simboliche e alle progressive acquisizioni dei modi di comunicazione. Relativamente agli Ominidi si è evidenziata così l’importanza dei resti delle circonvoluzioni meningee impresse sui fossili. Come ha formulato J. Piveteau, sottolineando l’importanza ricoperta dalla progressiva specializzazione delle aree cerebrali, «[…] non pare possibile spiegare il completamento del nostro corpo se non in funzione dello spirito; non si può capire il corpo dell’uomo se non considerando che l’uomo è intelligente» (Piveteau, 1996, p.75). Jung così definisce il simbolo: Per simbolo bisogna intendere un mezzo atto ad esprimere una intuizione, per la quale non si possono trovare altre e migliori espressioni. Quando Platone con la parabola della caverna esprime il problema della teoria della conoscenza, o quando Gesù Cristo esprime con parabole la sua idea di Regno di Dio, abbiamo dei veri e propri simboli, cioè dei tentativi di esprimere ciò per cui non esiste nessun concetto verbale (Jung, 1964, p.56). Il simbolo secondo Jung, alla sfera collettiva, gli unici simboli sono quelli che derivano dalla vita dell’universo e non dalla vita propriamente individualistica dell’individuo. Microcosmo-uomo e macrocosmo-universo possono pertanto entrare in comunicazione proprio grazie al simbolo e al linguaggio simbolico il quale non possiede regole fisse di sintassi ma comunica in un linguaggio “altro” diventando nello scorrere della vita dell’essere umano il compagno del processo di individuazione che permette di ricostituire quell’ordine primordiale e mitico, la forse mitica età dell’oro. L’etimologia del termine infatti ci indica che “simbolo” deriva dal greco symballo, un verbo che significa appunto “mettere insieme” e nell’attività pratica si trattava di un coccio o di una moneta spezzata in due parti che andavano poi ricongiunte dai rispettivi proprietari. Due parti che si ricongiungono, due metà che si avvicinano, il Sé e l’Altro che trovano uno spazio di contatto, anche questo è simbolo. Se pertanto il simbolo è in grado di mettere in comunicazione o per meglio dire in relazione, il rituale non può non essere legato alla sfera simbolica. Neumann nel suo scritto sulla funzione psicologica del rito, così definisce il simbolo: E’il luogo dell’illuminazione dell’operare, in cui si esprimono contenuto di senso e significato di ciò che viene fatto. Il simbolo dev’essere inteso, non solo partendo dalla sua efficacia afferrante la personalità totale in via emotiva, ma anche, per l’appunto, quale precursore di una coscienzalizzazione in cui lo psichico dell’uomo comincia a diventare perspicuo a sé stesso. Il rituale originario di gruppo veniva vissuto in quanto doveva essere corso e percorso quale configurazione inconscia, e ogni singolo individuo veniva afferrato in qualità di totalità dall’operare rituale che egli eseguiva con la totalità del corpo, perché “percorrere” il rito significa, originariamente, “danzare” il rito. La danza è l’operare in cui una figura archetipica che sta alla base del rituale, il cerchio, la spirale, la via iniziatica, il labirinto, ecc., viene realizzata dal corpo stesso senza alcuna coscienza riflessa. L’individuo danzante, il gruppo danzante e la via archetipica danzata formano un’unità connettente interiorità ed esteriorità, che, quale via simbolica, stabilisce la realtà archetipica del rituale. In questo atto, la capacità rituale del singolo viene garantita da misure preparatorie, da riti di ingresso, purificazioni, segregazioni ecc., e il processo di trasformazione viene messo in movimento con l’ausilio della maschera, con la mutazione rituale della personalità tramite tatuaggio o veste rituale, tramite il contatto con il simbolo, e così via. Ma il fenomeno psicologico decisivo, che agli inizi vien sempre raggiunto e che più tardi va perduto, è l’instaurazione della totalità del singolo tramite l’evocazione dell’identità somatica quale istanza transpersonale, soprordinata dall’Io e trascendente la coscienza. Così come, originariamente, l’identità corporea (come nell’esempio addotto della via delle caverne) veniva provocata spontaneamente dall’altissima tensione e dalla totale dedizione, così, in seguito, viene posta in moto volontariamente e consciamente, specialmente tramite la danza, emozionalmente carica. Le preparazioni alla danza, duranti molte ore, di ogni iniziazione e di ogni festa di primitivi, vengono sentite come duro lavoro. Anche gli ausili caratteristici del rituale, droghe, bevande inebrianti, musica ecc., mirano all’integrazione del singolo nel gruppo, alla modificazione della coscienza e all’inserimento delle istanze psicofisiche soprordinate dall’Io. Nel rituale di gruppo, viene interrotta l’egoità del singolo, se ne instaura il nesso col trascendente Sé di gruppo, che è poi quanto dire: il nesso col Sé spirituale del gruppo e della specie, cioè con gli antenati. Quando, nel rito, il mondo essenzialmente efficace delle potenze numinose viene evocato e messo in attività, anche l’uomo che lo evoca deve trasformarsi nella sua realtà essenziale, o unirsi con essa, perché vista la cosa psicologicamente, lo strato psichico che viene evocato è quello transpersonale che è nell’uomo e che può essere messo in movimento solo tramite una vera metamorfosi dell’uomo, e cioè, esclusivamente, tramite un reale legame dell’uomo con lo strato profondo del numinoso che si trova nel suo inconscio (Neumann, op.cit.). Platone ha chiamato questo numinoso presente all’interno di ogni individuo daimon: La specie di anima che in noi è sovrana bisogna interpretarla nel senso che la divinità l’ha attribuita a ciascuno come demone, che noi diciamo risiedere alla cima del nostro corpo, affermando con pieno diritto che ci solleva dalla terra verso la parentela con il cielo, perché noi siamo una pianta celeste, non terrena: lì infatti, da dove sorge l’origine prima dell’anima, la divinità appendendo la nostra testa e radice, mantiene eretto tutto il corpo. Chi dunque si sia piegato alle passioni o all’ambizione e a esse si dedichi intensamente, inevitabilmente ha assunto solo opinioni mortali, e non gli manca proprio nulla di ciò che fa diventare, nei limiti del possibile, tutto quanto mortale. E rimane in lui solo questo elemento, perché questo appunto egli ha sviluppato. Ma chi si sia preoccupato della cultura e dei pensieri veri e abbia esercitato soprattutto questa fra le sue facoltà, deve senz’altro nutrire, se riesce a raggiungere la verità, pensieri immortali e divini, e, per quanto è possibile alla natura umana partecipare dell’immortalità, non gliene manca neppure una parte; anzi onorando sempre la divinità e rispettando il demone che vive in lui, egli è straordinariamente felice. Ma c’è una sola cura per ogni cosa e per ogni essere: attribuire a ciascuno l’alimentazione e i movimenti adatti. Alla parte di noi che è divina sono movimenti affini i pensieri e le rotazioni dell’universo: ciascuno deve conformarsi a essi correggendo le nostre orbite mentali corrotte e relative al divenire e apprendendo invece le orbite armoniose dell’universo (Platone, 1994,p.147-151). Nella ricerca di un senso esistenziale che attanaglia da sempre l’Essere umano, vi è il linguaggio simbolico che permette un’apertura, che crea una congiunzione tra dentro e fuori, che trascende la materia per inerpicarsi sulle spire dell’assoluto. Un’entità divina, capace di restituire, nello scorrere della banalità quotidiana, lo spirito divino proprio di ogni uomo. In esso risiede la redenzione per l’uomo, il superamento, di cui è stato visionario anticipatore Nietzsche, del limite fenomenico. “[…] il simbolo è intimamente connesso a qualcosa di pericoloso e minaccioso, così da poter essere scambiato con quello; oppure, al suo apparire, può suscitare proprio il male e la distruzione. Comunque sia, l’apparizione del principio di salvezza è collegata intimamente alla distruzione e alla devastazione” (Jung, 1969, p.267). Questo è nel contempo il senso dei rito che, come ha individuato Neumann (op.cit., p.186-187), ha ormai perso le sue origini ed è diventato copia di un’antica realtà luminosa: L’evoluzione della coscienza porta necessariamente al crollo dell’originario rituale e collettivo. Nel corso dell’evoluzione dell’umanità, la funzione del singolo diviene sempre più evidente; comincia il processo dialettico fra il gruppo e il singolo creativo e il rituale di gruppo viene completato e sostituito da rituali fondati dal singolo. La diversità degli uomini, operante fin dagli inizi, tende a che il collettivo incarichi individui particolarmente dotati ad agire da “uomini della medicina”, profeti, condottieri: e questi, allora, assumono una posizione di eminenza nella vita collettiva.[…] Il singolo, mentre si guadagna sempre maggiore estensione dell’essere individuale e del mondo individuale, deve necessariamente ripagare tutto ciò con una corrispondente perdita, cioè una sempre maggiore enucleazione dalla propria partecipazione mistica al gruppo e al suo mondo. L’individualizzazione del singolo, di conseguenza, viene compensata da un’evidenziazione, e da un incremento di potenza, delle istanze che, a questo punto, debbono dominare la frequentazione del numinoso in rappresentanza de gruppo: è così che si giunge a una nuova, fatale, se pur necessaria, differenziazione all’interno dell’umanità, e cioè la separazione dei sacerdoti, in qualità di gruppo permanente, da quei singoli creativi che, per natura propria, sono predestinati alla frequentazione del numinoso. Il sacerdote, in quanto maneggia il rituale in luogo del gruppo, diventa strumento impersonale del collettivo, anche se, naturalmente preferisca interpretarsi come strumento impersonale delle potenze. Si giunge ora allo sviluppo del ritualismo: il rituale diventa indipendente dagli uomini e vien messo in opera senza essere supportato da analogo processo psichico entro l’uomo, diventa “accadimento in sé”, spettacolo, in cui gli archetipi si muovono, ma che non è più movimento dell’uomo tramite cui si muovevano gli archetipi. Ciò garantisce al rituale il suo carattere di eternità quanto alla sua contemplazione, ma la teofania mostrata nel rituale non è più, ora, una teofania accadente nell’uomo. Ed è così che il rituale diventa un pericolo, un ‘oppio per il popolo’. Il punto di gravità sta in ciò: che il rito in via di degenerazione, non solo non apporta più alcuna nuova conoscenza e nuova illuminazione, ma di contro a una coscienza evoluta, opera come cosa invecchiata e regressiva in quanto impediente la conoscenza.[…] Il movimento illuministico antiritualistico si fonda su un tratto creativo della situazione originaria tanto quanto vi si fonda la tendenza profetico mistica: mentre questa cerca di ripetere il carattere archetipico dell’esperienza originaria, l’altra si attiene al suo vettore coscienziale. L’illusionismo di massa, con l’irrealtà delle sue emozioni e dei suoi procedimenti, è l’ultimo discendente del rituale di gruppo. Già nel 1700, in piena età illuministica, il filosofo Liebniz delinea l’uomo come “monade senza finestre”, un’entità chiusa nella sua dolorosa individualità, incapace di rapportarsi con altri individui anch’essi monadi chiuse. Il rito che rappresentava in origine una via di comunicazione, una danza, ha cessato il suo movimento per raggelarsi nell’individualità. Ma se l’individualità è necessaria, il problema è che non è sufficiente all’uomo così come non lo è la materialità. In ambito antropologico il fenomeno rito rappresenta un campo d’indagine dai confini ampi e di difficile tracciatura. Quello che gli antropologi hanno cercato di fare a partire dall’Ottocento, il secolo che sancito la nascita dell’antropologia come scienza, è stato quello di definire che cosa sia il “rito” e perché sia nato all’interno dei gruppi umani. Pertanto, a seconda del periodo e della corrente antropologica, è stata data maggior importanza ad alcuni aspetti inerenti al rito a seconda dell’antropologo e a seconda della corrente a cui egli apparteneva. Malinowski, ad esempio, ha dato maggior risalto le funzioni psicologiche del rito. Durkheim e sulla sua scia Radcliffe-Brown hanno dato al rito una funzione di legittimazione dei valori collettivi. Gluckman ha individuato all’interno del rito una soluzione dei vari conflitti sociali. Turner nella sua analisi si è orientato agli aspetti simbolici. Leach e Tambiah hanno esplorato rispettivamente gli aspetti linguistici e semantici. D’Aquili, Laughlin e McManus hanno sostenuto l’esistenza di una effettiva continuità tra i rituali degli animali e quelli propri della sfera umana. Goody ha contestato l’esistenza stessa del “rituale” in ambito teorico. Geertz ha sostenuto che l’unico ambito di pertinenza della ricerca antropologica per quanto riguarda la sfera del rituale sia quella indigena. Rappaport, al contrario di Geertz, attribuisce al rito spiegazioni di ordine ambientale ed economiche di cui gli esseri umani non sarebbero consapevoli. Bloch individua nell’analisi dei processi storici una chiave di lettura per la comprensione del rito. Ad una tale varietà di eminenti nomi deve, per ovvie ragioni, corrispondere un’altrettanta varietà di teorie, ognuna rappresentante una possibile strategia di indagine incapace, pero’, di ingabbiare completamente la complessità dei fenomeni rituali. Questi ultimi, infatti non solo appartengono a diverse ambiti della vita (sociale, economico, politico) ma risultano essere strettamente legati a significati simbolici inscindibilmente legati ai miti di fondazione, alla cosmologia e allo stesso concetto di cultura. Da questa pluralità di variabili sorge inevitabile la necessità di privilegiare nell’analisi antro pologica un aspetto del rito o un particolare tipo di rituale. L’antropologia, ai suoi albori si orienta verso due campi di indagine: – il rito – la parentela. L’analisi di queste due sfere non può non risentire delle teorie evoluzionistiche che proprio in questo periodo, la seconda metà dell’Ottocento, trovano il loro momento di massima espansione. Per questo motivo, viene evidenziato sempre di più il netto distacco tra le società primitive, dislocate oltreoceano e la società occidentale, patria del pensiero razionale e delle moderne scoperte scientifiche, che soprattutto a partire dal Seicento hanno dato avvio alla scienza moderna. Da questa contrapposizione tra queste due realtà, per molti aspetti così antitetiche, nasce l’esigenza di studiare in campo antropologico l’evoluzione delle credenze andando alla ricerca dell’origine primordiale di queste. Così, Tylor, antropologo britannico, formula una delle prime teorie per quanto riguarda l’animismo: lo studioso sottolinea che la radice dell’animismo non vada ricercata in ambito sociale ma sia legata esclusivamente ai meccanismi del funzionamento della mente umana. Questo fatto permette a Tylor di considerare l’animismo come la matrice prima da cui ogni religione (monoteista, politeista o rivelata) trae la sua origine arcaica. Il passaggio verso forme di culto più evolute segna nel contempo il progressivo sviluppo della scienza basata, sempre secondo Tylor, su principi di causazione impersonale, antitetici con i principi di causazione personalistica propria dell’animismo e della magia. Quest’ultima è il tema centrale della famosa opera di Frazer: The Golden Bough (Il ramo d’oro). La magia sancisce il rapporto fra l’uomo e la natura fin dalle epoche più remote; in origine ogni uomo è “mago di sé stesso” e ricorre agli incantesimi esclusivamente per il proprio utile, in seguito viene delineandosi la figura dello specialista, che utilizza la propria arte e le proprie conoscenze a vantaggio di tutta la comunità curando le malattie, prevedendo il futuro e controllando il tempo atmosferico. Frazer nel corso della sua analisi su credenze e rituali, afferma che “coll’andar del tempo la falsità della magia divenne sempre più evidente e il mago cedette così il posto al sacerdote che, rinunciando al tentativo di dominare direttamente i fenomeni naturali […] si propone di raggiungere lo stesso scopo attraverso la divinità. Così il re, dopo essere stato inizialmente mago, tende a sostituire le pratiche “stregonesche” con le funzioni sacerdotali della preghiera e del sacrificio (Frazer, 1990, p.56). I nessi causali su cui si basa la magia sono, secondo Frazer, il principio di similarità (il simile produce il simile) e quello di contiguità (le cose che sono state a contatto una volta continuano ad agire una sull’altra anche a distanza). Questa distinzione fra magia “omeopatica e simpatica” risulta essere uno degli argomenti più interessanti di tutta l’opera di Frazer che, come sottolinea Tambiah, antropologo di spicco del Novecento, verrà fruttuosamente ripreso da Jakobson nell’analisi delle associazioni metoniminiche e metaforiche e da Lévi-Strauss nello studio del pensiero selvaggio. Nel panorama ottocentesco troviamo un altro personaggio importante per quanto riguarda l’analisi dei rituali ed in particolare del comportamento magico: Marett (1914). Egli ritiene che la magia sia una risposta ad uno stato di tensione: «Quando un uomo è travolto dall’odio o dall’amore […] e […] non può trovare altro rimedio, ricorre alla finzione per alleviare la tensione»; la magia quindi si delinea come un’attività simbolica “sostitutiva”, dotata di una funzione catartica. Al contrario Durkheim, altro antropologo di spicco dell’Ottocento, al contrario dei precedenti, sostiene nelle Lectures on the Religion of the Semites (1889) che i riti costituiscano il fondamento delle religioni primitive, mentre i miti sarebbero soltanto concrezioni successive. Per questo motivo l’analisi di Durkheim si basa su una lettura eminentemente sociologica dei fenomeni religiosi poiché la società impone agli uomini norme e valori a cui essi devono sottomettersi ma che essi non hanno né prodotto né voluto. Pertanto le norme imposte dalla società esercitano sulla psiche individuale una pressione forte perché costituiscono della rappresentazioni collettive che inducono il singolo a pensare che esistano delle potenze fuori di lui, identificate appunto come divinità. Durkheim elabora la sua tesi nel panorama evoluzionista che domina gran parte dell’Ottocento e pertanto il suo proposito di comprendere la natura dei fenomeni religiosi si confonde con la ricerca delle origini, ossia delle prime manifestazioni dei fenomeni soprannaturali. In Les formes éleémentaires de la vie religieuse l’antropologo identifica la religione primaria con il totemismo, madre di tutte le future forme di culto. Queste sono le teorie principali che, permeate dal sacro evoluzionismo, emergono nel corso dell’Ottocento e che instaurano le basi per gli studiosi del Novecento. Non dobbiamo però pensare che le teorie novecentesche siano semplicemente dei calchi di quelle del secolo precedente. Infatti nel corso del Novecento emergono filoni di ricerca totalmente nuovi e originali. Malinowski, la cui vocazione per l’antropologia sembra essere nata dalla lettura del Ramo d’oro di Frazer, ha svolto gran parte delle sue ricerche sulle isole Trobriand, piccoli lembi di terra nel Sud del Pacifico. Su queste isole, gli isolani presentavano a Malinowski una particolarità: erano infatti presenti contemporaneamente tra i Trobriandesi due tipi di pesca, l’una condotta vicino alle coste, l’altra in alto mare. Sebbene le due forme di pesca possano apparire molto similari, la prima veniva condotta senza alcun rituale mentre la seconda, quella in alto mare, era connessa con attività propiziatorie. Malinowski giunse perciò alla conclusione che di fronte a avvenimenti carichi di imprevedibilità, l’umanità tutta tende a fare attività rituali in grado di dare una risposta allo stato emotivo. La magia, pertanto, è un fenomeno compensatorio, sostitutivo, in grado di esorcizzare la presenza inquietante dell’ ignoto. I rituali magici vengono poi consolidati dalla tradizione, si ricorre infatti al rito magico perché esso è stato elaborato dagli antenati nel tempo “mitico” ed è stato tramandato di generazione in generazione senza subire variazione alcuna. Se la dimensione emotiva può scatenare l’esigenza di una risposta, l’attività magica è l’unica in grado di sopperire a questa necessità. Malinowski distingue la magia dalla religione: l’obiettivo delle due sfere è il medesimo ma i meccanismi d’azione sono profondamente diversi. Si ricorre infatti alla magia per esigenze pratiche mentre la religione diventa indispensabile per quelle situazioni che riguardano gli interrogativi di ordine esistenziale. L’antropologo analizza i riti magici alla luce della teoria funzionalista nell’opera A scientific theory of culture. Come suggerisce il titolo stesso il proposito è quello di fare un’analisi scientifica che metta in luce i rapporti di causalità tra i bisogni umani e la cultura concepita come valido strumento capace di soddisfarli. Secondo l’antropologo, i riti magici hanno il compito di placare l’angoscia proprio in quelle società dove gli individui sono più esposti alle calamità naturali, là dove la sopravvivenza quotidiana è segnata dall’incertezza e dalla precarietà. Dalla sua esperienza sulle piccole isole del Pacifico, Malinowski evidenzia che il ricorso alla magia sia uno sforzo dell’uomo di fronteggiare l’ignoto, l’imprevisto, tutto ciò che l’essere umano non è in grado di controllare esclusivamente con la proprie capacità tecniche. Le capacità umane hanno dei limiti ben precisi, oltre i quali “gli sforzi pratici fondati razionalmente” non valgono nulla; tuttavia gli uomini si ribellano all’inattività, pur “rendendosi conto della propria impotenza”: […] una volta che si è imbarcato per un lungo viaggio o si trova in mezzo alla battaglia o a metà del ciclo di coltivazione, l’indigeno cerca di rendere la sua fragile canoa più capace di tenere il mare con gli incantesimi, o di evitare le cavallette e gli animali selvatici con un rito, o di sconfiggere il nemico con l’aiuto delle danze (Malinowski, 1970). Secondo l’interpretazione di Malinowski la magia compare in tutte quelle attività della sfera umana dove l’abilità manuale e la conoscenza non sono sufficienti per garantire la certezza del successo; gli uomini ricorrono alla magia solo nel momento in cui sanno di non poter esercitare un controllo sul “caso”. Per questo motivo la sfera magica non ha nulla da condividere con la scienza, infatti i principi di simpatia e di similitudine su cui la magia si basa creano rituali magici basati esclusivamente su associazioni simboliche legate ai “risultati da conseguire”. A questo punto non possiamo non scorgere nell’analisi Malinowskiana l’importanza attribuita alla componente psicologica: la magia ha lo scopo primario di soddisfare i bisogni emotivi inconsci dell’individuo il quale quando viene “abbandonato dalla conoscenza” e “sperimenta la propria impotenza” viene spinto a cercare un’attività sostitutiva. In questo panorama la magia si identifica come lo strumento più adatto a redimere questi desideri votati altrimenti al fallimento e capace di ristabilire la tensione emotiva e psicologica. Malinowski, pur sottolineando gli aspetti più strettamente individuali legati alle pratiche rituali, non nega però l’importanza del gruppo dove le tradizioni e il consenso collettivo rafforzano la credenza nelle pratiche magiche e costituiscono un fattore importante di integrazione sociale. In antitesi alla posizione presa da Malinowski, troviamo la tesi portata avanti da Radcliffe-Brown il quale sostiene che molte attività rituali, in particolare quelle legate alla sfera magica e iniziatica rafforzano il senso di angoscia e di impotenza dell’individuo. In questo modo ci troviamo di fronte alla posizione, completamente opposta alla precedente, dove è il rito stesso a generare uno stato di tensione psicologica e non quest’ultima a produrre il rito. Nell’evoluzione degli studi antropologici, la posizione di Malinowski viene sempre più arginata mentre fino agli anni cinquanta del Novecento mentre prende il sopravvento il paradigma struttural-funzionalista di Radcliffe-Brown. L’antropologo, prendendo spunto dalle considerazioni fatti da Durkheim nell’Ottocento, afferma che la forza delle tradizioni tende ad assumere nel singolo individuo la forma di un obbligo morale che, durante il rituale, si genera insieme all’emozione collettiva. Lo scopo di Radcliffe-Brown, pertanto è quello di sottolineare l’ambito collettivo dove il rito prende forma e che determina la nascita di emozioni individuali che hanno lo scopo di fissare determinati valori nei partecipanti. Mentre Malinowski distingueva la religione dalla magia, Radcliffe Brown sostiene che in effetti la distinzione tra mondo magico e mondo religioso non esista. I rituali per l’antropologo appartengono, nella loro essenza più profonda, all’espressività simbolica. Il compito dello studioso è quello di indagare ciò che si cela dietro i rituali stessi che agiscono tutti attraverso un linguaggio simbolico che aspetta soltanto di essere codificato. L’esperienza sul campo di Radcliffe Brown si è svolta sulle isole Andaman, un piccolo gruppo di isole a sud dell’India. Lì l’antropologo ha avuto modo di comprendere che esiste un codice rituale legato al momento della nascita per cui entrambi i genitori devono seguire determinate regole onde evitare problemi al nascituro e a loro stessi. Anche per Radcliffe Brown, come per Durkheim la dimensione emotiva è una conseguenza del rito stesso. La tesi di Radcliffe-Brown verrà poi ripresa da due dei suoi allievi, Fortes ed Evans-Pritchard che, sulla scia degli insegnamenti impartiti dal maestro, affermeranno che siano proprio i riti a sancire e legittimare le relazioni sociali e da questo deriva la necessità della loro ripetizione periodica. Durante la cerimonia rituale, inoltre, vi è l’utilizzo di simboli che servono a creare una rete di valori sacri e intangibili, non solo tra i partecipanti ma all’interno di tutta la comunità. All’interno del panorama struttural-funzionalista vi è poi un altro personaggio di rilievo che però si discosta decisamente dai due precedenti, Gluckman, il quale insieme ai suoi allievi formerà un’importante corrente di pensiero all’interno della scuola antropologica britannica. Nel 1962 pubblica Essays on the ritual of social relations dove l’analisi del rituale viene strettamente legata alle relazioni sociali. Il contributo di Gluckman si rifà ai Riti di passaggio di Van Gennep, ma il richiamo all’opera si dimostra essere di impronta profondamente critica. Gluckman sostiene infatti che il testo del belga Van Gennep sia noioso perché mancante di un fondamento critico: Van Gennep infatti non spiega come determinati riti (di passaggio) si esplichino in un determinato modo. Lo scopo di Gluckman è proporre una teoria sociologica dei rituali di passaggio, secondo l’antropologo esistono infatti due forme differenti: – il rituale. – la cerimonia. Il rituale ha sempre come elemento caratterizzante un riferimento di ordine mistico, magico, religioso, che supera inequivocabilmente la materialità della vita quotidiana. La cerimonia, al contrario, viene standardizzata senza alcun riferimento al mondo mistico. Nelle società moderne sono presenti molte cerimonie, mentre nelle cosiddette società tribali è possibile scorgere una forte presenza di forme rituali. Se da una parte lo stesso Gluckman è affascinato dall’analisi che Van Gennep fa dei riti di passaggio, la sua esigenza è di comprendere il perché di tali rituali. La sua risposta prenderà come riferimento l’organizzazione sociale: infatti in società che basano la loro struttura sulle classi di età e su relazioni di parentela incrociate tra famiglie (discendenze patrilineari e matrilineari), un individuo è, ad esempio, contemporaneamente padre di famiglia e capogruppo. Per sancire questo passaggio tra questi due diversi status è necessario, in piccoli spazi e in piccole comunità, effettuare un rito che codifichi il passaggio tra i due ed elimini la possibilità di confusione tra i ruoli. Il rituale, inoltre, si presenta in associazione a potenziali situazioni di conflitto causati dagli stessi legami parentelari. La ritualizzazione serve nello stesso tempo a mascherare e ad esprimere queste contraddizioni, necessarie comunque per la nascita della dimensione sociale. Questa posizione verrà ripresa fra gli anni Quaranta e Sessanta da molti antropologi britannici nello studio della stregoneria soprattutto in Africa. Tra questi il più famoso è Pritchard che ha fornito un importante contributo con la sua opera Witcraft, Oracles and Magic in cui le credenze nella magia e nella stregoneria vengono presentate come un sistema cognitivo coerente, capace di dare vita, usando le parole dello stesso Pritchard, ad una filosof

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