Una storia delle psicoterapie corporee

di Barbara Goodrich-Dunn e Elliot Greene

Anni Settanta

Settima e ultima puntata

Alla fine degli anni Settanta, mentre insegnava lettura corporea in Europa, Kurtz scoprì che il semplice insegnare a interpretare la postura del corpo e i modelli di tensione non era sufficiente.

“Cominciai a sviluppare tecniche per rivelare le emozioni che stanno dietro le posture”, spiega. “Chiedevo alle persone di rilassare la mente e di andare dentro di sé. Poi dicevo qualcosa e notavo la loro reazione. Sapevo cosa dire per averli ben osservati e ascoltati, così certe volte ciò che dicevo aveva un effetto potente. Un’altra tecnica era chiamata “taking over”: quando una persona faceva qualcosa con il corpo, io mi mettevo a farlo al suo posto. Io lo facevo per lei così lei poteva rilassarsi. Se per esempio c’è un tipo grande e grosso che sta in piedi contenendosi in una sorta di autoabbraccio, usando i propri muscoli per tenersi su, e tu ti metti a sostenerlo al posto suo, comincerà a rilassarsi un pochino. Si rilasserà e entrerà in uno stato di vulnerabilità e di tristezza. Può essere istantaneo”.

Il 1971 portò Ilana Rubenfeld in contatto con un’altra persona che sarebbe stata significativa nell’integrare il suo lavoro, Moshe Feldenkrais. Un gruppo di lavoro corporeo di cui lei faceva parte invitò Feldenkrais a Esalen per la prima volta. Lavorarono intensamente con lui per sei settimane:

“Fu un vero punto di svolta per me”, dice Rubenfeld, “perché vidi come le persone potevano imparare cose che pensavo potessero comprendere solo con il contatto. Potevano capire alcuni cambiamenti nel loro corpo e lasciarsi andare grazie a movimenti molto delicati”. Rubenfeld cominciò a vedere come i metodi Alexander e Feldenkrais potessero completarsi a vicenda, ma Feldenkrais non ne era altrettanto certo. Egli aveva studiato con F.M. Alexander a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta e aveva avuto uno scontro con lui. Comunque, proseguendo la sua formazione con Feldenkrais, Rubenfeld si convinse sempre più: aveva già lavorato per dieci anni integrando psicoterapia e lavoro sul corpo. Ilana si pone insomma nell’ambito di una seconda generazione di pionieri: Perls, Selver, Feldenkrais, Ida Rolf e Alexander l’avevano preceduta creando un campo in cui lei e altri avrebbero apportato altre innovazioni e integrazioni.

A metà degli anni Settanta, Rubenfeld cominciò a cogliere un’ulteriore influenza nel lavoro corporeo e nella psicoterapia corporea: la filosofia orientale e le arti marziali. Per quanto la filosofia orientale fosse stata studiata in America già da tempo, cominciarono a prenderne piede gli aspetti più legati al corpo. “Ho un background europeo e sono molto attratta da queste cose”, dice.

“Anche altri di formazione reichiana, come Pierrakos, Lowen e Selver, hanno un background europeo.

Lavorando a livello di corpo-mente, cominciai a vedere tai-chi e aikido emergere nello scenario del lavoro corporeo. E anche il judo. Del resto Feldenkrais era un esperto di judo e un grande ‘integratore’ tra Oriente e Occidente”. Dalla Gestalt di Perls aveva già incorporato elementi di buddismo zen e meditazione, che le avevano consentito di enfatizzare l’andare dentro di sé. Inoltre, attraverso l’opera di Trungpa Rinpoche, arrivò a Berkeley l’influsso dei tibetani e si fece più chiarezza sulle scuole di pensiero orientali.

Anche Jung divenne importante nel lavoro di Rubenfeld. “Mi rendo conto che la persona che si offre volontaria per venire a lavorare al centro della stanza diventa l’archetipo del tema universale che ognuno dei presenti sta sentendo”, dice. “E le loro tematiche, quando lavoro con loro e li tocco, fanno emergere tutto quello che sta accadendo in me e nelle altre persone presenti. Penso che tutto il discorso dei miti che i nostri corpi si portano dentro non abbia solo pochi anni. Io viaggio in tutto il mondo, e ovunque io vada vedo che gli stessi temi si ripetono, nelle persone e tra le persone”.

Gli anni Ottanta, e oltre gli anni Ottanta, portarono nuova attenzione verso la psicoterapia corporea e anche alcune riconsiderazioni. Per Alexander Lowen, per esempio, l’enfasi progressivamente si spostò verso una più profonda considerazione della sessualità. L’idea di Lowen è che anche se le fissazioni di una persona possono avere radici recenti, la fissazione stessa è correlata alla sessualità. “Il sesso è un meccanismo fondamentale per il rilascio delle emozioni e dell’energia”, afferma Lowen, “e se non puoi scaricarle in un modo piacevole, tutto il lavoro che fai nella testa non andrà da nessuna parte”.

Nonostante la terapia di Lowen avesse sempre avuto a che fare con la sessualità, l’avvio di un dibattito sull’abuso sessuale dei bambini ne mise ancor più in risalto quest’aspetto. Lowen osserva in proposito: “Stiamo constatando che la percentuale di abuso sessuale da parte dei genitori sui bambini raggiunge il 33% dei casi. E quel che chiamiamo abuso può variare, non è necessariamente fisico, può essere emozionale”. Lowen si rende anche conto che le tematiche di tipo edipico vengono ignorate nel processo terapeutico. E si chiede: “Può un terapista cavar fuori qualcosa dal paziente se prima non ha lavorato su di sé? Se non vedi il tema di Edipo nella tua vita, non lo vedi nel tuo paziente e non puoi risolverlo. È ovvio”.

Per Lowen, il proliferare di diverse terapie somatiche dagli anni Settanta in poi ha creato molta confusione su cosa sia davvero una terapia. Secondo lui, la terapia è un processo di autoconoscenza, e l’autoconoscenza richiede l’analisi. Ciò che contesta al movimento reichiano degli ultimi tempi è l’idea che i cambiamenti energetici nel corpo creino di per sé la guarigione: questo secondo Lowen rappresenta un problema nelle terapie corporee. “I reichiani pensano che basti”, dice, “e ovviamente, se fai una terapia che richiede anni, cerchi delle scorciatoie. Non li biasimo per questa loro ricerca, ma biasimo quelli che non vedono che non funziona”. Lowen non si ritiene un guaritore: “Non cerco la guarigione. Penso che di base il corpo guarisca se stesso. Ma lo si può aiutare a farlo”.

Il lavoro di John Pierrakos era focalizzato sull’energia e sulla consapevolezza. Dice: “L’energia è la forza guida della consapevolezza: quest’ultima contiene energia, contiene gli elementi della motilità, dell’espressione, della percezione. La manifestazione completa dell’energia è il piacere, il succo della vita. Noi lo desideriamo ardentemente eppure lo uccidiamo. Ne abbiamo paura. È un tabù e moltissime cose nella nostra cultura ne fanno un tabù”. La funzione del piacere di cui parla Pierrakos non è il piacere dell’edonismo o del materialismo, “è l’intimo piacere di vivere. Una vibrazione totale di vita, gioia ed espansione”.

È attraverso l’organismo, il corpo, che Pierrakos vede l’apertura sia della consapevolezza che del piacere di vivere. Spiega: “La funzione dell’energia e l’espansione dell’organismo creano consapevolezza, dando vita alla vita. L’energia ha a che fare con la vita. Se non c’è, l’organismo si riduce, la vita diventa solo un processo mentale, non c’è emozione. Noi lavoriamo con l’energia.

Quando si apre l’energia nel corpo, si promuove il Sé spirituale. Io sento che il più grande significato della vita è lasciare che l’energia connessa alla consapevolezza si muova con le emozioni e con la mente”.

Anche il lavoro psicomotorio di Al e Diane Pesso ha continuato a evolversi. Dice Al Pesso: “Il fulcro del nostro lavoro è la fede nella vita biologica, nell’evoluzione, nella verità dell’anima. Diane e io abbiamo trascorso la nostra esistenza scoprendo la fiducia nella vita, avendo il coraggio di lasciare il noto per l’ignoto, e andando verso l’ignoto attraverso la vita”.

Alla fine degli anni Ottanta, i Pesso stavano lavorando alla costruzione dell’Io, alla mappa della coscienza e alla mappa delle resistenze. Per Al Pesso, questo era un passo essenziale nello sviluppo del lavoro psicomotorio. “Abbiamo cercato di lavorare verso il centro della verità con il cliente”, afferma. “Prima, nel nostro lavoro, questo aveva a che fare prima di tutto con l’emozione, adesso

anche con l’Io. Il lavoro era buono, ma non poteva essere integrato con l’Io a causa di un insufficiente individuazione dello stato dell’Io”. Il lavoro di Pesso con i suoi clienti si svolgeva in scene strutturate durante le quali alcune persone potevano essere utilizzate per aiutare il processo del cliente. Pesso però finì col non essere più soddisfatto di questa struttura: “Io la conducevo, in virtù del mio sapere. E il cliente diventava consapevole degli stati emozionali attraverso la mia mente, la mia approvazione o disapprovazione. In origine, ero io il pilota della struttura; ma era il cliente che aveva bisogno di esserne il pilota. Dovevo fare un passo indietro rispetto alla mia capacità di fare qualcosa che alcuni chiamano ‘magico’, la capacità di liberare la struttura inconscia.

Ora, con il cliente che conduce, l’effetto può non essere altrettanto drammatico, ma è molto meglio che sia il cliente a comandare la nave”.

Per Pesso, il fatto che il cliente conduca non significa solo che il lavoro è “diretto sul cliente”, cosa che peraltro può accadere. Anche essere il pilota è uno stato consapevole che, secondo Pesso, “permette ai pensieri associati alle esperienze affettive di diventare consapevoli. Un pensiero può essere il residuo di un’esperienza passata che è diventata una credenza o un valore. Nel lavoro terapeutico, lo esterniamo. Incoraggiamo le persone a fare emergere questi pensieri e credenze”.

Ilana Rubenfeld ritiene che negli anni Ottanta il suo lavoro abbia fatto un salto quantico. “Il mio lavoro è cresciuto in modo esponenziale”, dice infatti, “non come uno più uno fa due, ma come uno più uno fa dieci. Faccio molto meno e succede molto di più, è una svolta importante. Un altro sviluppo del mio lavoro è dato dal fatto che sono molto più coinvolta dall’interesse per chi lo pratica. Mi rendo conto che la cura di sé è una delle ultime tematiche affrontate nell’ambito dei corsi di formazione. Le persone sono interessate alla teoria, imparano la tecnica, come toccare, come smuovere, cosa fare e dove, insomma imparano a prendersi cura degli altri, ma non a prendersi cura di sé”.

Durante il training del metodo Synergy di Rubenfeld, almeno metà della formazione viene dedicata alla cura di sé di chi pratica. Synergy è il nome che la Rubenfeld ha dato al proprio lavoro, e vede la sinergia del suo lavoro in relazione con la più vasta sinergia dell’universo. “La salute del nostro universo dipende dalla sinergia. Il mio lavoro è nato dall’integrazione di diversi elementi. Quando parliamo di lavoro corporeo, sembra che ci occupiamo solo del corpo e del suo linguaggio. In realtà non possiamo mai fare solo del lavoro corporeo. Io di fatto lavoro con l’intero sistema, che include il sentire dell’individuo, il suo spirito, i suoi antenati. Ogni cellula del suo essere è un microcosmo del suo essere totale e dell’universo. Penso che il lavoro corporeo ci permetta di vedere quanto siamo connessi con l’universo. Tutto quello che accade alle nostre cellule e ai nostri corpi si esprime di nuovo e di continuo nell’intero universo”.

Per Ron Kurtz, gli anni Ottanta hanno portato un consolidamento e un’espansione del metodo Hakomi. “Poco dopo aver fatto il mio primo training completo di Hakomi”, dice, “cominciai ad avere molte nuove intuizioni sull’intero processo, e non sono ancora finite”. Per Kurtz è importante che il patrimonio di conoscenza che si è venuto formando in anni di esperienza diventi accessibile alla società in generale. “Non dirigo le mie energie nel difendere ciò che so”, dice, “ma piuttosto nell’accrescerlo, nell’ imparare di più. Vorrei dare tutto all’esterno. Vorrei poter sfiorare appena la testa delle persone, e dar loro tutto ciò che so, se avessi questo potere. Voglio che la conoscenza vada fuori, nel mondo, non ho bisogno di salvarla per me. Non è parte di me, lavoro per l’intero universo”.

Charles Kelley è andato in pensione come direttore dell’Istituto Radix nel 1986. Ma lavora ancora con le idee che hanno dato vita al metodo Education in Feeling and Purpose. Kelley ritiene che Radix, nonostante sia stato un successo, si sia andato sbilanciando rispetto all’idea originale. Radix era stato inteso come una forma di educazione al sentire e all’avere obiettivi, ma comunicare la necessità del lavoro per obiettivi era difficile per lui. Di conseguenza, Kelley dice di aver lasciato perdere il problema di come bilanciare il lavoro con gli studenti.

Le persone si affollavano per fare il lavoro di Radix sul sentire, ma quello sugli obiettivi era trascurato. Osserva Kelley: “Le persone che avevano bisogno di lavorare sugli scopi nella loro vita ne erano spaventate. Non amavano confrontarsi con questo tema né che fosse loro richiesto di guardare dentro se stesse. Era una cosa spiacevole e andava contro l’inclinazione del loro sentire.

Preferivano stare distese sul materasso, avere qualcuno che lavorava con loro e avere crisi di pianto o di rabbia, di paura o di piacere. Per loro era meglio arrendersi alle emozioni spontanee, scaricare, liberarsi, piuttosto che sedersi in gruppo e affrontare le emozioni difficili della propria vita, confrontandosi con il fatto di conoscersi meglio, con la capacità di vivere per un obiettivo più vasto e di prendere la decisione che avrebbe comportato un lavoro continuo nella propria esistenza”.

Per Kelley, questo sbilanciamento riguarda tutti quei lavori sul corpo che si focalizzano solo sul rompere l’armatura e sull’espressione delle emozioni. Dice ancora: “Le persone che hanno a che fare solo con questo lavoro perdono molte delle loro capacità di funzionare in modo più vasto, di funzionare con disciplina, resistenza e con una visione chiara delle cose. Perdono l’abilità di ritardare la soddisfazione, di lavorare ora per ciò che accadrà forse la prossima settimana, il prossimo anno, o fra 20 anni, persino fra una generazione o due. La capacità di operare per il futuro viene da qualcosa di molto diverso dal lavorare per liberare le proprie emozioni e vivere nel qui e ora”.

Malcolm e Katherine Brown hanno sempre più approfondito i loro concetti di centri dell’essere, o ontologici, nel corpo. Per Malcolm, “è una delle cose più eccitanti che ho chiarito a me stesso dal punto di vista teoretico. Ci sono differenze emozionali, energetiche e spirituali nel corpo. La parte frontale, anteriore, del corpo fornisce secondo me la chiave di ogni autentica esperienza religiosa e di ogni autentica esperienza transpersonale tra le persone. Tra me stesso e il cosmo”.

Brown teorizza che i centri ontologici si formino inizialmente come centri istintivi nel corpo-mente, stimolando la crescita dell’organismo, ed evolvano poi in centri attraverso i quali l’individuo media le esperienze dell’anima e guida l’autoattualizzazione. Così, il petto e il viso, che si formano come un centro di collegamento e relazione, evolvono in ciò che Brown chiama l’Eros, mediando un tipo di amore-agape per se stessi e per il mondo. La pancia, che si forma come un barometro di salvezza e sicurezza, diventa il centro Hara, incorporando tutta la saggezza e la conoscenza di sé implicite nel concetto giapponese di hara. La testa e la parte superiore della schiena si formano come centro per consentire la differenziazione cognitiva e percettiva di sé rispetto agli altri, e da questo si sviluppa in seguito il Logos, che è la capacità di capire e dare significato all’esperienza. Infine, la parte inferiore della schiena e le gambe, che si formano come capacità di essere aggressivi, di prendere posizione e di muoversi, diventano il centro del Guerriero Spirituale, la cui qualità è l’abilità di vedere aldilà delle cose, per la propria salvezza. Quando ai centri viene consentito di prendere energia, e di lavorare senza interferenze da parte della corazza emozionale e fisica, la loro sinergia crea l’esperienza dell’anima.

Dice Malcolm Brown: “Le costellazioni archetipiche di Jung possono essere comprese nei termini di questi quattro centri ontologici quando si lavora direttamente con la psiche e con l’energia. Ogni persona, nella propria evoluzione verso l’autoattualizzazione, passa attraverso fasi in cui incontra immagini archetipiche, e poi, andando oltre queste fasi, diventa sempre più incarnato e radicato nell’anima. Quando questo accade, le persone non hanno più bisogno di immagini archetipiche, perché i percorsi archetipici sono polarità istintuali-spirituali che abbiamo per natura”.

A dispetto del fatto che la psicoterapia corporea, o quanto meno il concetto del corpo-mente, sia diventato sempre più rispettabile, le opinioni sul suo futuro vanno da un elevato ottimismo a un profondo pessimismo. Per Alexander Lowen, alla fine degli anni Ottanta il futuro appariva desolato e strettamente legato all’immoralità dei tempi: “Non c’ è futuro. Non sono ottimista circa la possibilità di fermare questa tendenza narcisistica, pericolosa del mondo. Sarà sempre peggio, non meglio”.

Al Pesso riteneva che la psicoterapia corporea debba includere assai più del corpo. “Lavorare solo con il corpo è un errore”, dice, “abbiamo bisogno di tutte le informazioni di base della persona: non solo il corpo ma gli ideali, i pensieri, i valori. Ci devono essere consapevolezza e senso della realtà.

Dobbiamo anche tendere alla relazione. Questo è ciò che dà significato alle emozioni e ai simboli”. Secondo Ilana Rubenfeld il futuro avrebbe portato integrazione: “Guardando al linguaggio del corpo, al sistema somatico, alla salute e alla medicina psicosomatica, credo che il campo del lavoro corporeo sarà un fantastico complemento al lavoro medico e che ci sarà un’integrazione tra esso e il mondo spirituale”.

Charles Kelley faceva eco a tale sentimento. A proposito del “carattere” dei tempi degli ultimi anni Ottanta dice: “Nel mondo c’ è una vera e propria rivolta contro gli obiettivi. Il fatto di andare avanti solo con il sentire non può funzionare a lungo termine. Questa assenza di obiettivi è collegata all’aumento della criminalità e al crescere dell’irresponsabilità e dell’infelicità”.

Kelley ritiene comunque che se il lavoro di liberazione dalla corazza e di rilascio delle emozioni è accompagnato da un lavoro sugli obiettivi, si possa ottenere un produttivo equilibrio.

Ron Kurtz riteneva che “siamo ancora in quel flusso, in quella sorta di disturbo degli anni Sessanta e Settanta. Ci sono un enorme potenziale e un’energia che aspettano di essere forgiati dai principi olistici e da un cambio di paradigma”. Kurtz non credeva che la psicoterapia corporea potesse essere integrata nella corrente principale della psicologia. Sarebbe stato un salto troppo grande.

Riteneva piuttosto che avrebbe continuato a esistere come indirizzo separato. Malcolm e Katherine Brown vedevano anch’essi una sorta di esistenza parallela per la psicoterapia corporea e quella “ufficiale”. Secondo loro “il futuro del movimento dipende soprattutto dall’integrità delle persone che praticano. E gli aspetti che riguardano la formazione sono molto importanti, perché la profondità che si raggiunge quando corpo e psiche lavorano insieme richiede davvero una grande maturità da parte dei terapisti; altrimenti si getta il paziente nel caos.

Se il terapista non sa quello che sta facendo e non ha fede nel proprio guaritore interno, può solo generare caos e sfiducia nella pratica terapeutica”.

Probabilmente John Pierrakos è quello che aveva la visione più ampia del ruolo che la psicoterapia corporea avrebbe avuto in futuro. Riteneva che avrebbe accompagnato l’inesorabile evoluzione della consapevolezza. “La vita sta girando a un ritmo tremendo”, diceva, “è un grande momento di trasformazione, siamo a un crocevia”.

Conclusioni: In sintesi, e tornando a una prospettiva storica, la psicoterapia corporea è atipica nel mondo della psicologia in quanto abbraccia due dei tre temi centrali della psicologia – percezione, motivazione e apprendimento – mentre molti altri approcci ne racchiudono uno solo. Di questi due temi, uno è la percezione, che è collegata alla psicoterapia corporea attraverso la psicologia umanistica, che a sua volta è collegata alla psicologia fenomenologica ed esistenziale e ai filosofi e psicologi della Gestalt (nota 2). L’altro è la motivazione, che è collegata alla psicoterapia corporea tramite la psicologia psicanalitica (nota 3). Nelle parole di psicoterapeuti corporei come Alexander Lowen, John Pierrakos, Charles Kelley, Malcolm e Katherine Brown, Ilana Rubenfeld, Ron Kurtz, Al Pesso e David Boadella sentiamo l’eco di voci precedenti: Sigmund Freud, Wilhelm Reich, Carl Jung, Fritz Perls, Abraham Maslow, Carl Rogers, F.M. Alexander, Moishe Feldenkrais, Kurt Goldstein e molti altri.

Il tema dell’apprendimento – che nella prima parte del XX secolo fu associato con il comportamentismo e la psicologia sperimentale (Bormann, 1980, p. 7) e più di recente con la teoria cognitiva – storicamente non ha avuto grandi affinità con la psicoterapia corporea. A dire il vero, questa affermazione si riferisce alla teoria dell’apprendimento così come viene proposta accademicamente e definita “un processo nel quale le capacità di comportamento vengono modificate come risultato dell’esperienza, sempre che il cambiamento non sia dovuto a tendenze alla risposta originarie, alla maturazione oppure a stati momentanei dell’organismo causati da fatica, droghe o altri fattori passeggeri” (Runyinm, 1977, p. 196). Non si riferisce invece all’educazione, e all’uso del termine educazione o apprendimento che viene fatto da vari metodi orientati al corpo,

che a loro volta possono cercare di differenziarsi dalla terapia o dal processo terapeutico.

Considerando il paragrafo precedente sull’apprendimento in modo più approfondito, dal 1960 circa la teoria dell’apprendimento si è allontanata dal comportamentismo, che suggerisce che le risposte siano i risultati appresi di condizioni ambientali, piuttosto che fattori innati, andando verso la psicologia cognitivista (Schwarz e Reiberg, 1991, p. 16). Le teorie cognitive costituiscono il secondo maggior approccio allo studio del processo di apprendimento. Queste teorie non vedono l’apprendimento come lo stabilirsi di una connessione tra uno stimolo e una risposta. Piuttosto, ritengono che l’apprendimento sia un processo più complesso che utilizza il problem solving e il pensiero intuitivo, e non solo il ripetersi di una catena stimolo-risposta. (Robertson, Zielinski e Ward, 1984, p. 199). In altre parole, la teoria cognitivista sottolinea che l’apprendimento avviene come risultato di un processo mentale interno. Ovvero, la ricerca intende descrivere il ruolo dell’attività mentale propria della persona nell’apprendere e ricordare (Schwarz e Reiberg, 1991, p. 2).

Questa prospettiva vede le persone come risolutrici di problemi, che usano in modo attivo le informazioni provenienti dal mondo intorno a loro per padroneggiare l’ambiente (Solomon, 1992, p. 105). Questa prospettiva più ampia circa le persone ha aperto la teoria dell’apprendimento ai concetti umanistici, che sono uno dei filoni delle idee della psicoterapia corporea. L’influenza della teoria cognitivista ha anche reso la teoria dell’apprendimento e la psicoterapia corporea più accessibili l’una all’altra, enfatizzando gli eventi che hanno luogo all’interno di chi apprende.

Il forte interesse dimostrato, in occasione delle conferenze nazionali dell’USABP, nella ricerca sullo sviluppo del bambino di Allan Shore, Catherine Weinberg ed Ed Tronic riflette un’emergente compatibilità tra le idee rappresentate da queste ricerche e quelle centrali della psicoterapia corporea, che può costituire uno dei primi piloni in un ponte ideale tra la psicologia corporea e la terza idea centrale della psicologia. Forse la storia della psicoterapia corporea del XXI secolo sarà l’evoluzione di una psicoterapia corporea integrata, che unisce percezione, motivazione e apprendimento.

Postscriptum Gli autori non pretendono che questo articolo costituisca una storia definitiva della psicoterapia corporea. L’articolo si intitola: “Voci: una storia della psicoterapia corporea” e non “Voci: la storia della psicoterapia corporea”, per diverse ragioni. Una storia completa e definitiva – ammesso che sia possibile – richiederebbe un lavoro assai più vasto di quanto sia possibile pubblicare su questa rivista. Per la stessa ragione, alcun e esperienze che stanno sotto l’ombrello della psicoterapia corporea non sono state specificamente incluse: per esempio Bodynamics, Somatic Experiencing, Dance Therapy, Integrative Body Psychotherapy, Lomi, Hakomi Integrative Somatics, Body Mind Centering, e così via.

Similmente, gli autori hanno scelto di mettere a fuoco soprattutto la connessione storica della psicoterapia corporea con la psicologia, e di conseguenza i legami tra le terapie somatiche e gli approcci centrati sul movimento (ad esempio il metodo Alexander, Feldenkrais, Sensory Awareness, Rolfing, massaggio) non sono stati esplorati in modo particolare in questo articolo.

Inoltre, al tempo delle interviste (1987-88), i terapisti più anziani, le cui voci formano il nucleo di quest’articolo, erano gli unici ad avere sviluppato in modo significativo la psicoterapia corporea che l’autore di queste interviste conosceva. Più recenti sviluppi sono peraltro difficili da mettere a fuoco in una prospettiva storica data la loro relativa “novità”. La visione storica si fa più acuta col tempo.

Speriamo dunque che questo articolo possa stimolare ulteriori dibattiti sulla storia della psicoterapia corporea e invitare altri a scrivere su tutti quegli aspetti che questo articolo non ha toccato.

Note

  • Al di là dei metodi sperimentali, la Germania è stata la culla della psicologia di stampo psicanalitico, esistenziale, fenomenologico, oltre che della Gestalt: in una parola, dei maggiori background teorici della psicologia, eccezion fatta per il comportamentismo. I campi di applicazione della psicologia (test, educazione, industria e altri), insieme al comportamentismo, sono invece creazioni soprattutto angloamericane.
  • In linea con l’idea della percezione sono ad esempio la credenza di James che emozioni, desideri e cognizioni siano essenzialmente percezioni di sé, quella di Dewey secondo la quale la consapevolezza di sé è una percezione della propria consapevolezza, e l’enfasi data dalla Gestalt al campo percettivo dell’individuo. La psicoterapia corporea si riconnette a questa linea attraverso le idee e i metodi umanistici, fenomenologici, esistenziali e della Gestalt.
  • In linea con l’idea della motivazione sono ad esempio quei teorici della psicoanalisi e sociali che enfatizzano gli impulsi interni e mentali all’azione, compresi i fattori cognitivi ed emotivi. La psicoterapia corporea si riconnette a questo filone attraverso le idee e i metodi della psicoanalisi, dei neofreudiani e dei neoreichiani.

Interviste di Barbara Goodrich-Dunn, 1987-88, con:

David Boadella, per corrispondenza;

Malcolm and Katherine Brown, a Cassano Valcuvia, Italia;

Charles Kelly, per telefono;

Ron Kurtz, per telefono;

Alexander Lowen, a Pudding Hill, Connecticut;

Al Pesso, per telefono;

John Pierakkos, a New York;

Ilana Rubenfeld, per telefono.

Gli autori

 

Barbara Goodrich-Dunn è psicoterapeuta dal 1974, e ha un’ulteriore formazione in terapia del massaggio. La sua formazione principale è avvenuta con Malcolm Brown e Katherine Ennis Brown in psicoterapia organismica. Interessata a come corpo e mente s’intersecano, il suo lavoro si focalizza sulla psicoterapia corporea da una prospettiva junghiana.

Le sue interviste con analisti come Marion Woodman e James Hillman sono state pubblicate su diversi libri e riviste. Insieme a Elliot Greene co-dirige un programma di formazione quadriennale al Washington Institute for Body Psychotherapy e svolge corsi di massaggio e programmi di formazione di lavoro corporeo sugli aspetti psicologici della pratica somatica. È co-fondatrice della United States Association for Body Psychotherapy e della D.C. Area Guild of Body Psychotherapists, per entrambe delle quali è stata membro del comitato direttivo.

Elliot Greene è psicoterapeuta corporeo dal 1975. La sua formazione principale è avvenuta con Malcom Brown e Katherine Ennis Brown in psicoterapia organismica. Come parte della sua formazione e dato il suo interesse per le interconnessioni tra corpo e mente, ha completato un programma di formazione in terapia del massaggio nel 1974.

Insieme a Barbara Goodrich-Dunn, co-dirige un programma di formazione quadriennale al Washington Institute for Body Psychotherapy ed è co-autore di un libro sugli aspetti psicologici della terapia del massaggio, del lavoro corporeo e della pratica somatica, pubblicato da Lippicott, Williams e Wilkins alla fine del 2002. È attualmente presidente della United States Association for Body Psychotherapy ed è stato presidente nazionale della American Massage Therapy Association.

Traduzione di Alessandra Callegari

A cura di Monique Mizrahil